La vendetta delle onde

La vendetta delle onde

L’afa arroventava le loro pelli, torrida e insopportabile, si chiedevano di quali misfatti si erano resi colpevoli per aizzare l’ira del dio Apollo e causare quella canicolare calura. Il cielo era limpido e privo di nubi, nessuna, da quando erano partiti dalla Corsica, aveva offerto un briciolo di sollievo ai soldati, che erano sollecitati a remare senza tregua dalla voce tonante dell’uomo che dettava loro il ritmo, essa aveva la medesima cadenza grottesca del ruggito di una bestia che tuonava nel buio antro di una grotta. Se non fossero state gridate, probabilmente le sue parole avrebbero avuto anche la cantilena ritmata dei distici elegiaci che l’equipaggio aveva sentito ripetuti da Genucio Stellatino Elvorix, il quale, però, si era spesso confuso con la posizione degli accenti per la breve memoria che lo caratterizzava: l’equipaggio aveva riso, chiamandolo stupidus. Genucio inizialmente aveva gioito con loro, poi si era reso conto che i soldati avevano aumentato il volume della risata grezza che li caratterizzava e, capendo di essere preso in giro, si era zittito, scappando prima che persino il comandante lo iniziasse a reputare ottuso.

Era vero che gli uomini spesso commentassero con disprezzo ciò che osservavano, eppure sembravano dimenticare le loro parole dopo avervi messo un punto, eseguendo le medesime azioni che avevano criticato. La nave traboccava di persone di questo genere: c’era un uomo anziano, Opimus, che aveva perso l’occhio destro combattendo con tutte le sue forze per Roma, ma in giro correva la voce che, cercando di liberare un martello che gli serviva per dei lavori in casa sua, avesse sbagliato a dosare la forza e l’arnese si fosse sfilato troppo presto dal legno in cui era piantato e l’avesse colpito nell’occhio con la punta adunca. Oppure, un altro soldato circondato da innumerevoli storie era Cinnio, che vantava una discendenza con Romolo e Remo, visto che un giorno si era addormentato in una foresta e, al suo risveglio, aveva trovato vicino al suo grembo un grosso cane dal manto spelacchiato, che aveva subito scambiato per la Lupa.

Invece, a comando della nave, vi era un uomo possente, alto forse più di tutti gli individui che remavano per lui, dalle spalle ampie e le braccia modellate da consistenti muscoli, allenati dalle ore in cui aveva stretto tra le mani il timone, talvolta combattendo contro le tempeste, lottando per non far affondare l’imbarcazione soggiogata dalla pioggia, che gli piombava negli occhi insistente, spingendolo a perdere concentrazione per il bruciore e il fastidio, talvolta rilassandosi a seguire il flusso della corrente e sentire il vento che soffiava nelle vele. Sotto una zazzera di capelli castani, aveva occhi piccoli e di un verde intenso, si diceva che, quando si arrabbiava, attorno alla pupilla si librasse un alone color ocra, di tanto in tanto pure dello stesso giallo delle spighe di grano dei campi intorno Roma, come se invocasse Marte per evitare che qualcuno osasse ribattere ancora contro la sua persona e la sua inflessibile volontà. Era noto anche per avere una pelle ambrata a causa del sole cocente, che, in giornate come quelle, bruciava sulla sua epidermide, infiammandola senza alcuna pietà.

Rianus Cornelius Didius aveva ricevuto l’ordine di portare merci e soldati nella sua fidata trireme fino alla Villa delle Grotte che si trovava sull’isola d’Ilva. Era partito dalla Corsica poche ore prima, infatti se voltava la testa riusciva ancora a vederne le sagome ondulate dei colli; il vento gli era favorevole e il prodiere aveva srotolato il grande drappo di stoffa che già si piegava in avanti, protratto verso la loro destinazione.

Auster era dalla sua parte! Aveva accettato la coppa di sidro che aveva rovesciato in mare come sacrificio e al momento lo aiutava a facilitare quel viaggio.

Vedeva la fatica dei soldati che, perfettamente coordinati, muovevano i remi dell’imbarcazione, con il volto già madido di sudore e il fiato corto per lo sforzo, i loro sbuffi si animavano in ringhi e gemiti seguendo la voce ridondante e grezza.

Lui stesso aveva le ciocche dei capelli che gli si erano attaccate alla nuca e alla fronte a causa del sudore. «Qualche nuvola non farebbe male» mormorò tra sé e sé con la freschezza immaginaria dell’ombra tra le labbra, per allietargli le sofferenze di quel giorno. Era contento che non ci fossero burrasche di nessun tipo, ma una nuvola non l’avrebbe assolutamente sdegnata.

Nonostante il vento favorevole, però, trovava che i ritmi ai quali si stavano muovendo fossero troppo contenuti: andavano troppo piano!

Erano già partiti quando il sole era a mezzodì, per aspettare le condizioni più favorevoli e accontentare il nobile che abitava a Fabricia, portandogli truppe e un carico di avorio e olio senza provocare critiche o ammonimenti, visto che quell’uomo era un pavido vecchio che aveva solo paura di vedere all’orizzonte, mentre rimirava il mare, delle triremi con sopra bruti conquistatori, come se i pirati scacciati da Pompeo ritornassero in vesti da fantasmi a turbare il suo otium. Rianus aveva solo sentito storie riportate talvolta dalle bocche tanfanti degli uomini con cui navigava, talvolta da qualcuno dei suoi amici più intimi, magari dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo di Cecubo – ora che ci pensava forse da bambino aveva visitato Fondi e i luoghi paludosi in cui quell’uva cresceva.

Nonostante il caratteraccio del vecchio fosse un pettegolezzo che circolava, sperava di tornare a Roma senza sorbire rimproveri: sarebbe stata la prima volta. Rianus aveva guidato la nave in tutti quegli anni, che fosse attraverso tempeste spaventose o una giornata di calma piatta come quella, però continuava a mostrarsi sempre timoroso in mezzo al mare. Era un ragazzino quando suo padre l’aveva portato con sé per imparare il mestiere, ricordava di aver sgobbato come un servo, faticando a imparare a remare coordinato con altre persone, pulendo il ponte della nave e familiarizzando con i venti. Sapeva benissimo come l’Auster fosse caldo e umido e causasse forti libecciate che facevano ribollire il mare e tuonare il cielo, mentre Favonio era più tipico della primavera, con un carattere mite, e lo apprezzava perché faceva sbocciare fiori e frutti. Ma il suo preferito era Aquilo: un vento impetuoso che proveniva da nord-est, la cui forza gli ricordava quella dell’aquila romana, simbolo delle legioni e della potenza di Roma.

Meno aveva gradito le stelle, perché, quando suo padre l’aveva portato a volgere la punta del suo nasino ancora piccolo e bambinesco verso la luna, aveva capito che fosse incredibilmente difficile riconoscerle e ricordarle tutte. Era stato preso in giro tre notti di fila dal genitore e, temendo di deluderlo, la quarta aveva già deciso che avrebbe finalmente associato i disegni delle costellazioni che erano stampati sulla pergamena alle muse che ritraevano.

Tuttavia, nel mezzo della notte, quando si trovavano in mare aperto, piuttosto lontani dalle coste per gli standard romani, era scoppiata una bufera quasi dal nulla. Rianus era all’esterno, i tuoni l’avevano spaventato, era inciampato sui suo stessi passi, scivolando sul ponte bagnato, ed era caduto in mare. La schiena aveva sbattuto contro i remi, ricordava ancora il dolore persistente del legno che si infrangeva brutale sulla pelle, facendogli uscire dalle labbra gemiti e lamenti, l’acqua gelida l’aveva avvolto e le onde spumeggianti l’avevano portato verso il fondale con il loro abbraccio. Rianus era ancora troppo debole per resistere al colpo subito e troppo gracile per tollerare il gelo dell’inverno, così, semplicemente, aveva sperato che Plutone lo accogliesse nell’aldilà al pari dei grandi eroi.

D’un tratto, però, una mano gli aveva preso il braccio e scosso il corpo per fargli aprire gli occhi, quando il bambino lo fece, vide un paio di occhi intensi come i petali di una lobelia e un mantello di ciocche dorate che ondeggiavano con la marea. Era una donna dalla pelle candida e il seno nudo, cercava di svegliarlo e, quando c’era riuscita, aveva nuotato con lui così velocemente che Rianus pensò di star sognando. A lungo aveva creduto che fosse un’allucinazione causata dal delirio, poi la sua testa era sbucata fuori dall’acqua e la donna l’aveva aiutato ad afferrare uno dei remi.

Inizialmente aveva creduto che lei facesse altrettanto, in attesa di essere salvata, però ella gli sorrise e sparì come la spuma del mare, lasciandosi alle spalle uno schizzo prorompente a causa della coda da pesce che sostituiva le sue gambe.

Era una sirena.

Non si spiegò come successe, ma la creatura parve portare via con sé anche il maltempo. Fu suo padre, dunque, attaccato a una corda, a recuperarlo non appena lo riconobbe appeso al remo. Era ignoto come avesse potuto resistere e, in alcun modo, credette alla storia di Rianus, bensì onorò gli dei per averli risparmiati.

Era per questo che, da quando aveva memoria delle navigazioni in cui aveva avuto il pieno comando, aveva sempre atteso l’arrivo del bel tempo per la partenza, partecipando a continui sacrifici a Nettuno e compiendone di più minimi di importanza verso i geni.

Quegli schiavi avrebbero dovuto iniziare a remare con più intensità, perché lui, in alcun modo, avrebbe navigato durante la notte, qualora il sole si fosse sentito fiacco e avesse iniziato a scendere sempre più verso l’orizzonte. Cosa lo trattenesse da sostituire il ritmo scandito dalla voce, con quello delle fruste sulle loro pelli, ancora non lo sapeva.

Si preparava già a pregustare il dolce sapore del vino che gli sarebbe stato offerto dal nobile al momento del suo arrivo, così tenne impegnata la mente a lungo.

Man mano che riservò gli occhi all’orizzonte, iniziò a sentirli fiacchi e cedevoli, le palpebre erano stanche di riparare da una luce così intensa e la sclera era completamente arrossata; con l’arrivo del vespro, riuscì a spirare un sospiro di sollievo, sentendo la temperatura rinfrescare e il sudore del giorno ghiacciarsi in una calotta di brividi che partiva dalla parte bassa della schiena e la attraversava come le fiamme calde del pritaneo, quando vi si avvicinava eccessivamente o per tempi troppo prolungati e il calore diveniva tale da sembrare l’acqua del frigidario.

Negli ultimi sprazzi di vita del carro di Apollo che stava sparendo a ovest, Rianus individuò i promontori dell’isola, così, visto l’innalzarsi della luna, pensò di dirigervisi con la trireme.

Non accettò proteste, lui aveva deciso così e i soldati dovevano assolutamente seguire il suo volere, così osservò con i suoi occhi dello stesso colore del bosco situato alle falde dell’Aventino, al di sotto del Saxium – una ripidissima rupe che aveva solo osservato dalle pendici –, gli uomini faticare e sperò che l’ansia terrificante che sentiva martellargli lo stomaco se ne andasse velocemente, perché avvertiva che fosse capace di piegarlo in due da un momento all’altro, renderlo un cane rantolante che temeva pure la sua stessa ombra: essa, di notte, si estendeva ovunque il suo occhio potesse arrivare e l’unica salvezza dal buio era volgere la testa verso il cielo e affidarsi a quelle stesse costellazioni delle quali non aveva mai imparato davvero i nomi e cercare fino all’alba di distinguerne la stella polare.

Attraccarono a una distanza considerevole dalla costa, là dove le sagome del lato occidentale dell’isola erano impossibili da distinguere davvero.

La notte calò, con essa i soldati andarono a mangiare e a riposarsi dopo un lungo giorno di sforzi e fatiche, Rianus aveva sbocconcellato un po’ di carne e verdura e, poi, si era steso nella stiva della barca, dormendo per qualche ora. Il suo era un sonno turbato, di un marinaio che con l’acqua non andava d’accordo, ma si era trovato in mezzo al mare per volere di suo padre e, dopo la sua morte, non era stato capace di ignorare le aspettative che aveva di lui. O almeno, questo è ciò che il vecchio uomo aveva sempre pensato: Rianus non si era allontanato dal suo fianco come in realtà desiderava, perché in tutte le rotte percorse aveva cercato quella sirena. Ne inseguiva la sagoma durante le burrasche e pregava che affiancasse la nave quando il mare era calmo, divertendosi a schivare i remi e nuotare alla loro velocità. Solo una volta era stato capace di scorgerla, la bramava, la voleva, e, quando gli era parso di riconoscerla in lontananza, aveva calato le reti, speranzoso che gli arpioni la bloccassero. Con l’ansia che gli ribolliva nel corpo, si era arrabbiato quando le aveva viste recise e della sirena non c’era nemmeno l’ombra, né in quella situazione, né negli anni successivi.

In cuor suo, non si era dato per vinto, continuando a fare il nocchiero nonostante il mare lo spaventasse e si fermasse nei porti quando occorreva e, se avesse potuto abbandonare la nave per aver salva la vita, l’avrebbe fatto, senza sé e senza ma.

L’alba era ancora lontana di qualche ora, quando Rianus aprì gli occhi e si alzò a fatica, stanco, ma contemporaneamente sfiancato dal rimanere sdraiato. Dunque, salì sul ponte a passi pesanti, tali che scricchiolavano pesantemente sul legno, senza che gli importasse di svegliare qualcuno. Il cielo imponente si librò davanti ai suoi occhi, mistico e incomprensibile, mentre avvertiva lo spirito di suo padre alle spalle e il suo braccio muscoloso indicargli dove puntare lo sguardo per riconoscere l’astro che gli interessava.

La sua era un’essenza fioca come la luce di una candela, oscillava nel buio e il calore dei ricordi lo fece star bene come un canto dolce di una madre.

E fu proprio un canto quello che udì in lontananza.

Venne incuriosito da quel suono lento e melodico, che gli avvolse il cuore con calore e pensò di star per piangere. Volse il capo verso la fonte del rumore, provando a identificarla tra il rifrangere delle onde e il russare dei soldati, che si udiva poderoso anche dal ponte. «Cosa sarà mai?» si domandò con un filo di voce, ma la domanda rimase levitante a mezz’aria, interrotta e priva di risposte. Proveniva da un luogo che sembrava galleggiare in mezzo al mare, perché al buio non riusciva a identificarlo. Visto che non si accingeva a fermarsi, Rianus chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quella dolce sensazione.

Ricordò la melodiosa voce della madre, che lo faceva calmare quando era bambino, ma anche il tocco delle persone che aveva amato, delle loro bocche e dei loro corpi, e continuò sentendo le sue risate da piccolo, mentre correva per gli sconfinati agri di terra coperti da erba verde o grano dorato, cercando di non perdere di vista il suo cane e rimanendo incantato quando vedeva la maestosità dei cavalli che, di tanto in tanto, passavano per i sentieri che percorreva, portando sul dorso dei centurioni.

Mano a mano che si osservava nei momenti di migliore felicità come uno spettro estraneo al corpo che possedeva, sentì il controllo dei muscoli sfuggirgli, era incapace di riafferrarlo, mentre lo vedeva rispondere non più alla voce dei suoi pensieri, bensì a quella del canto.

Il modo in cui camminava con pesantezza lungo il ponte, scendeva le pericolanti scale che conducevano nella stiva e svegliava chi ancora dormiva, non gli apparteneva davvero, non era lui e lo sentiva: le grida, i suoni che rilasciava e quelli che udiva, l’andamento delle sue gambe erano suoi solo di facciata. Ma lui desiderava sapere cosa ci fosse laggiù e quale creatura avesse le capacità di cantare con tale maestria da annebbiargli la mente di dolci ricordi infantili. Più uomini alzavano le loro teste fiacche e insonnolite e udivano la voce, più i loro sguardi perdevano la lucentezza che vi brillava all’interno e diventavano annacquati, vacui, come coperti dal vapore del mare. Si muovevano rigidi, con la schiena incurvata e la testa ciondolante, alcuni si fecero largo spingendosi tra i corpi bollenti, ma privi di volontà, con tale impeto da gridare come bestie dal ponte della nave, sporgendosi oltre il bordo e annaspando per cercare un’identità. Cinque caddero, due vennero calpestati dai piedi della moltitudine e le loro voci non indagarono più sul canto, bensì gettarono fuori grida strazianti di ossa che crepitavano e lividi che si facevano largo tra la pelle, sembrava che quegli uomini non sentissero per niente gli intrusi di carne calda sotto le piante dei loro piedi perché li muovevano imbizzarriti, scalciavano per togliersi di torno braccia e gambe di troppo, salivano sulle schiene e sui ventri appiccicati al legno, che ormai era di un intenso rosso. Era stato un bruto il colpevole, un uomo che nella giovinezza aveva fortificato il suo massiccio corpo portando pesantissimi carichi come un mulo e mangiando tanto quanto il peso di ciò che aveva tenuto tra le mani, Rianus era stato felice di portarlo con sé, perché si diceva che da solo avesse la forza di dieci uomini. Fu una disgrazia che egli, pur di raggiungere il canto, avesse spinto in acqua altri tre soldati e avesse affondato il piede con tutta la forza di una gamba da bovino sul cranio di un ragazzino di diciannove anni, uccidendolo con uno scricchiolio terrificante, il medesimo di un tronco d’albero che cade nella foresta e sbatte ovunque le frasche gonfie. Poi si era lanciato anche lui, alzando uno schizzo d’acqua altissimo, che bagnò gli altri che si stavano sporgendo.

Rianus era indifferente a tutto, però manteneva la voce di colei che cantava tra le onde. «Remate!» fu il suo ordine, con tono spiritato e protratto in un ruggito animalesco, ma capace di parlare con la medesima abilità persuasiva del canto, dissuadere i soldati ad afferrare i remi e muovere l’imbarcazione verso la riva, in particolare su un gruppo di scogli che distava una manciata di metri dalla riva e sul quale erano sedute quattro donne bellissime.

I soldati se ne innamorarono subito, non appena videro con i loro occhi, liberi da qualsiasi foschia causata dal buio e dalla fatica, le code squamate degli stessi colori dell’arcobaleno, che appariva dopo una burrasca, luccicare ai raggi di una luna negli ultimi momenti di brillantezza. Così, anche i capelli erano chiarissimi, fili dorati e luminosi tanto quanto le fiamme di un focolare, completamente bagnati e aderenti alla pelle nuda del busto. Avevano volti delicati, sinuosi, occhi magnetici, ritratto delle onde che vedevano, li puntavano un po’ contro la nave che andava loro incontro, un po’ sulle compagne che avevano intorno. Sorridevano, ridevano, si abbracciavano, toccandosi con la pelle fradicia e si pettinavano le lunghissime ciocche che cadevano morbide sulle loro spalle e sui seni nudi.

Il canto non si fermava, anzi, era il bel fiore che attirava l’ape sui suoi petali e fu così ipnotico da coprire addirittura il boato del legno graffiato e rotto dalla pietra degli scogli, all’inizio sembrò un mugolio di un animale pugnalato da una lancia e lasciato agonizzante fino all’arrivo della morte, poi le assi scricchiolarono e l’acqua si fece più aggressiva mentre sbatteva contro lo scafo squarciato e la trireme iniziava a tremare e inclinarsi sofferente. La maggior parte dell’equipaggio continuò a far finta di niente: accortosi di non poter avanzare, abbandonarono i remi e si accalcarono sulla prua spingendo e gridando come cani divorati dai morsi di una fame cieca.

Le sirene sorridevano mentre osservavano quella scena patetica e, quando i primi uomini lanciati in acqua iniziarono a nuotare nella loro direzione, concessero che l’acqua le accogliesse nuovamente: erano tentatrici sanguigne, creature che continuavano a vivere nelle leggende come personificazione della morte e le donavano il più bello degli aspetti esteriori.

Quando le quattro sirene si furono allontanate, portando con loro anche la melodiosa essenza del canto, i soldati si iniziarono a guardare attorno confusi, annaspando e bevendo acqua perché fu come svegliarsi da un sogno: erano disorientati, alcuni in mare, altri su una nave incagliata.

«Com’è possibile?!» inveì Rianus, sbattendo i piedi sul ponte con insistenza e aggrappandosi al timone per colpa della trireme che si inabissava. «Questa nave, questi uomini, perché mi hai tolto tutto?!» Era sopravvissuto alla tempesta aggrappandosi a quei remi, abbracciando suo padre sulla sua imbarcazione e ne stringeva il timone per l’ultima volta. «Come hai potuto scappare ancora da me?» si chiese guardando con occhi affranti il mare agitato, sperava che lei apparisse nuovamente, che si abbandonasse tra le sue braccia e non fuggisse mai più. L’avrebbe addirittura ringraziata per averlo spinto ad affondare la nave, non rischiavano la vita perché erano vicini alla riva e il mare era comunque quieto, inoltre avrebbe finalmente potuto abbandonare quella vita che odiava e temeva – l’avrà fatto per me, ne sono sicuro, adesso apparirà, devo solo guardare bene tra queste onde e trovarla.

Ma nessuna creatura rispose ai suoi dubbi e, a presentarsi in lontananza, fu solo il primo dei tuoni che esplosero in quella notte, perché, ora che le sirene erano lontane, niente tenne più a freno la furia del cielo, che, su volere di Giove, scatenò una terribile bufera e fece innalzare la potenza di un mare imbizzarrito. Le onde selvagge che erano mosse dal vento travolsero chi nuotava in mare e lo spinsero contro gli scogli, macchiando l’acqua di rosso e lasciando rigidi cadaveri con le bocche spalancate in un’espressione di paura e dolore, il cui ultimo respiro era stato rubato dalle folate di vento.

Rianus inizialmente pensò di rimanere il più possibile sulla nave, poi si accorse che magari poteva aggrapparsi a un manipolo di scogli vicini – Per Giove, questa tempesta avrà una fine – e, dunque, si lasciò cadere in mare e iniziò a nuotare ancor prima che il suo corpo tornasse in superficie. Aveva preso un gran respiro, abbastanza per nuotare qualche metro in profondità, distante dalla furia delle onde, e aggrapparsi con la forza delle sue braccia agli scogli.

Quando fu così vicino da sentire il fiato mancargli, con i polmoni che sembravano sbattere contro le costole e il bisogno impellente di respirare, la mano che Rianus aveva allungato verso il primo appiglio sicuro della caletta, dove pensava di rifugiarsi per resistere alla violenza delle onde, fu arpionata e trascinata verso il basso con violenza, al punto che egli venne sorpreso tanto da non ribellarsi nemmeno.

Era già difficile cercare di vedere sott’acqua, con il buio vedeva solo le sagome più scure di ciò che lo circondava, però l’immagine che scorse gli apparve stranamente nitida, perché pareva aver catturato i raggi lunari e disperderli in un’aura limpida. Riconobbe i boccoli rossi e gli occhi azzurri di una fanciulla che gli era familiare: la sirena che aveva fatto placare la tempesta quando, da piccolo, era caduto in mare e l’aveva salvato da morte certa, facendolo aggrappare ai remi.

Quella stessa sirena alla quale aveva dato la caccia fino a che suo padre non aveva esalato l’ultimo respiro, riuscendo a prenderla con una rete solo pochi anni prima, perché sembrava seguirlo. Mi ha trovato! È venuta – pensò con un sorriso che gli costò le ultime quantità d’ossigeno che conservava, che si dispersero come bollicine verso la superficie, mentre Rianus faceva cenno alla creatura di nuotare verso l’alto, ma lei si immergeva ancor di più. Solo allora, distinse una spessa e dura cicatrice che partiva dalla spalla destra, solcava le scapole e terminava nella parte bassa della schiena, uno squarcio di un arpione talmente marcato che temette di vederne scorrere il sangue dalla carne.

Fu quando sentì il corpo smosso da sussulti e gli occhi tremare e chiudersi che capì che fosse giunta la sua ora, non avrebbe più rivisto la superficie, né il cielo. Sarebbe morto con le stelle di cui ancora non sapeva il nome a guardarlo e i resti della sua fallimentare vita a giacere sul fondale in eterno, perché le Moire da tempo avevano deciso che sarebbe stato il rimbombo atroce di un tuono l’ultimo suono udito prima che la fiammella della sua vita si consumasse.

Non avrebbe potuto sopravvivere al fuoco di uno stesso fulmine due volte.

Quando l’uomo portò alle labbra l’ultimo bicchiere di vino per rinfrescarsi la gola una volta che ebbe finito di raccontare la storia, vide le guance delle sue nipoti arrossate dal pianto. «Fu il vostro avo a salvare questa storia dalle onde, Ginacio aveva l’abitudine di dormire con dei tappi per le orecchie, perché era mezzo sordo, ma non totalmente, e il russare dei altri uomini lo infastidiva. Si ritrovò solo in cabina, dopo che tutti l’avevano lasciata di fretta e furia e si era azzardato a uscire solo quando aveva avvertito la nave muoversi. Sbucò dal ponte con la breccia già aperta e l’imbarcazione che precipitava tra fulmini e tuoni, cadendo in acqua riuscì a salvarsi, affermando che né le onde, né la tempesta lo avevano ostacolato, come se Giove desiderasse diffondere gli errori del comandante: aveva permesso a Ginacio di riconoscerlo mentre una sirena lo trascinava via con sé» continuò a dire, «Ginacio si è presentato in questa casa, perché era la sua meta, riferendo della spedizione e di ciò che era andato storto».

Nel corso delle generazioni l’avvenimento aveva assunto carattere leggendario, entrando tra le tradizioni tramandate sull’isola e sulla storia del relitto che giaceva a Pomonte, divorato in eterno dalle onde.

Ginevra Perez, Leonardo Russo, Francesco Mignogna, Maxim Mocan

Istituto Comprensivo Raffaello Foresi, Portoferraio